Un artista australiano, padre aborigeno madre svedese, per protestare contro la condizione delle donna in una (non mi ricordo più quale) regione dell’Asia, ha modellato e creato delle trappole per i piedi.
Infatti in quel lontano luogo dell’oriente estremo, vige una terribile usanza.
Tutte le donne di lì sono obbligate, dalla loro “cultura”, ad indossare fin da bambine delle scarpe strette e rigide.
Molto più piccole dei loro piedi.
Con la crescita, così costretti, i piedi si deformano fino a deturparsi.
Questa assurda tortura, retaggio di usanze antichissime, serve a rendere difficile ogni spostamento e praticamente impossibile la fuga.
Giustamente indignato da tale barbarie, l’artista ha escogitato questa immensa provocazione:
ha raccolto trentacinque paia di scarpe da donna acquistandole ai mercatini dell’usato o addirittura trovate nella spazzatura.
Tutte con il tacco alto.
Tutte 35 di numero.
Poi le ha portate ai piedi per trentacinque giorni di fila, andando praticamente ovunque.
L’artista ha il 46 di piede.
Le scarpe, orrendamente sconquassate, sono state esposte al pubblico così come il piede d’artista le rifece.
Lui, l’artista, parla con gli ospiti e gli invitati della stampa seduto su una sedia a rotelle.
Dopo trentacinque giorni di scarpe strette, i suoi piedi, indignati e cianotici, si sono rifiutati di continuare ad andare avanti.
Tutto è documentato nel foglio distribuito all’ingresso.
Sono sbigottito.
Mi tranquillizza, però, il discorso di due donne che, dietro di me, stanno commentando la lieta notizia: l’artista ha già ripreso a deambulare e, parola del medico che lo ha in cura, fra pochi giorni ritroverà la forma perfetta.
Anche quella dei piedi.
M’infilo nel loro discorso chiedendo se sulla sedia a rotelle c’è rimasto per 35 minuti, vista la sua ossessione per il numero trentacinque (allegando una sardonica risatina).
Bene.
La più informata delle due era la madre dell’artista.
L’altra, la gallerista, mi sussurra a denti stretti “Idiota!”, bruciandomi con uno sguardo assassino.
Dov’è il bar.